Potremmo definire “Ambient Games” quella tipologia di giochi che riduce le possibilità di interazione (permettendo di controllare, talvolta, il solo movimento) per calare il giocatore all’interno di una storia, di un’atmosfera, o appunto, di un ambiente. L’interazione sposta dunque il proprio baricentro sulla relazione con il mondo circostante e/o sulla narrazione.

Le domande sorgono quindi spontanee: tanto che c’è chi si chiede se sia ancora lecito parlare di videogioco. Gli interrogativi, generalmente, riguardano la possibilità o meno di ridurre drasticamente le capacità interattive del medium videoludico, senza snaturarlo al punto da farlo diventare qualcosa di differente. Tanti i tentativi di definizione per questo nuovo “genere” ludico: dal più banale ed inutile “non-gioco” alla vaga e poco chiara “arte videoesplorativa”. Prima di dare una risposta concreta alle questioni, pur importanti, sollevate nell’introduzione dell’articolo, converrà dare un’occhiata ad una selezione dei titoli di maggior rilievo appartenenti a questa categoria, titoli spesso anche molto diversi tra loro.

Electroplankton (Toshio Iwai)

Anno Domini 2006: in Europa esce una piccola gemma (ormai dimenticata) sul doppio schermo dei nostri DS, creata da Toshio Iwai. In poche parole, Electroplankton è un gioco musicale, in cui la musica nasce dall’interazione con piccole e strane creature marine, in un tripudio atonale e altre mille sorprese sonore. Il gioco si suddivide in dieci parti, come dieci sono i “plankton” di cui è possibile prendere il controllo, sempre in modi diversi: rumoreggiando nel microfono della console, disegnando sullo schermo tattile, sfiorandone o punzecchiandone la superficie. L’interazione è limitata a questo, ogni creatura ha il proprio set di regole e non è dato fare altro.

È uno di quei giochi che potremmo tranquillamente chiamare “ambientali”, in quanto mette il giocatore a lavorare su un ambiente popolato di esserini microscopici e all’apparenza inutili. Facile sarebbe declassarlo ad esperimento non-ludico, ma inserendo la cartuccia dentro allo slot del DS ci si rende subito conto di quanto divertimento Electroplankton nasconda. In fondo un videogioco non è semplicemente ciò che lo stesso Iwai chiama “il divertimento di controllare immagini e suoni”? In un buon gioco non serve necessariamente un’interazione complessa, lo sottolinea lo stesso manuale di gioco: “L’interazione con questa enorme e favolosa varietà di Electroplankton è semplice quanto far scorrere il tuo stilo sul touch screen”.

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Gone Home (The Fullbright Company)

Pochi giochi sono più adatti di Gone Home ad essere associati con il termine “ambientale”. Gone Home mette il giocatore nei panni di una ragazza che torna a casa dopo un anno all’estero, e trova la villa in cui i genitori si sono trasferiti completamente abbandonata. Il perché di una tale situazione verrà chiarito con lo scorrere del gioco, per ora basti sapere che la ragazza da noi impersonata dovrà cercare di scoprire cosa è accaduto in sua assenza. Ci si ritrova in un “habitat” sconosciuto, pieno però di ricordi familiari, ma non per noi, quanto per la protagonista. Già qui si può avere un’idea dello straniamento che il gioco riesce a causare: si vestono i panni di un personaggio che ne sa virtualmente più di noi dell’ambiente in cui si trova, un personaggio legato affettivamente alle persone coinvolte nel racconto, che tra l’altro si sviluppa in modo frammentario (vedi Dear Esther), di pari passo con il ritrovamento di appunti e diari più o meno segreti.

Al giocatore altra azione non è permessa se non quella di camminare e di analizzare oggetti, mettendo a soqquadro un’intera casa alla ricerca di indizi. Si è in un ambiente che va esplorato da cima a fondo, niente di più. Eppure, la qualità dell’interazione è elevatissima e lascia riscoprire al giocatore uno dei significati più importanti del termine “gioco”: esplorare, trovare dettagli che non hanno alcun fine a livello pratico, ma completano un quadro dettagliatissimo, in ogni particolare. Nel corso del tutto sommato breve, ma intensissimo gioco, si scoprono i momenti più intimi e personali nella vita di ogni componente della famiglia  Sono questi gli elementi che rendono grande un gioco fatto di dettagli minuti e di una storia che arriva dritta al cuore per la dolcezza straordinaria con cui affronta un tema delicatissimo, che lascerò a voi scoprire.

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The Stanley Parable (Galactic Cafe)

Veniamo ora a uno dei migliori giochi in circolazione, probabilmente non solo degli ultimi anni. È il 4 agosto del 2011 quando esce su Desura una mod di Half-Life 2, che con il gioco di provenienza non ha nulla a che vedere. Nel 2013 questo “ex-mod” approda su Steam come gioco autonomo in una versione completamente rivista. Essenzialmente The Stanley Parable è un “metavideogioco” che analizza il medium in tutte le sue sfaccettature, in ogni elemento tecnico ed espressivo. E in più racconta una storia. Ma non una storia sola: è una storia composta da una costellazione di storie, in cui si muore, certo, ma in cui “la fine non è mai la fine”. E vengono raccontate avventure che solo all’interno del videogioco potrebbero essere raccontate, avventure fatte talvolta di un semplice girovagare alla ricerca di un filo narrativo perso chissà dove, sulla scia di una linea gialla che dovrebbe servire a ritrovarla, questa benedetta storia. Il tutto mentre al giocatore è lasciato il controllo del buono e silenzioso Stanley, guidato da una voce narrante che gli suggerisce cosa fare, quale strada scegliere. Ma, e qui arriva un “ma” di quelli importanti, entra in gioco la persona che sta seduta davanti a uno schermo (proprio come lo è stato Stanley, almeno fino all’inizio della sua storia), quella persona in carne ed ossa che, di tanto in tanto, può scegliere in quale porta entrare, anche se la voce ha richiesto tutt’altro.

Il tema della scelta e del libero arbitrio elevato a sistema, dunque? Non saprei, visti i momenti in cui la scelta è consapevolmente distrutta, in cui l’unica strada possibile si mostra con la potenza che solo l’inevitabile sa avere: quando si arriva al vicolo cieco non c’è molto altro da fare, se non accettare una fine provvisoria. E la scelta è veramente disintegrata quando ci si accorge di quale sia l’unico modo possibile per “finire il gioco”. The Stanley Parable è dunque un’esperienza che porta l’interazione a un livello metafisico, inserendo una relazione “vocale” con il narratore, oltre a una relazione fisica con l’ambiente (rieccoci alla definizione iniziale) fatta di porte che si aprono o si chiudono e pulsanti da premere per tutta la propria vita virtuale, fino a folli reiterazioni di interattività, ovvero semplici ripetizioni meccaniche per ore (sic!) dello stesso gesto, alla ricerca della “Pura Arte”.

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[continua…]



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Gabriele Raimondi

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